Il Reazionario

Sono un reazionario, postero mio diletto, perché mi oppongo al progresso e voglio far rivivere le cose del passato. Ma un reazionario molto relativo, perché il vero bieco reazionario è chi, in nome del progresso e dell'uguaglianza sociale, vuol farci retrocedere fino alla selvaggia era delle caverne e poter così dominare una massa di bruti progrediti ma incivili. (Giovannino Guareschi)

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Località: Bologna, Bologna, Italy

Studente all'università di Bologna, 21 anni,dotato di scarsa simpatia per il comunismo...

mercoledì, ottobre 31, 2007

Caprotti, Grande d'Italia

Quando una persona come il signor Caprotti, che in ottant'anni di vita ha cercato di non mettersi mai in mostra (questa a fianco è una delle 2-3 foto disponibili al pubblico) scrive un libro come Falce e Carrello vuol dire che la misura è proprio colma. Ho finito di leggerlo e devo dire che non mi ha detto nulla di nuovo. Chiunque sappia guardare alla realtà dei fatti, sa che in Emilia Romagna l'arroganza delle Cooperative è senza pari. Un' istituzione che si vanta di essere "equa e solidale", ma che di fatto si comporta come il peggior monopolista, spalleggiata da amministratori locali, sindacalisti, magistrati che sostanzialmente appartengono alla stessa parrocchia. Quella postcomunista. Non stupisce quindi leggere come le coop abbiano fatto di tutto per annichilire la concorrenza, annullando quindi la libertà di scelta dei propri clienti. Sono cose che ogni Emiliano, ogni Romagnolo, ogni Toscano, ogni Ligure con un po' di sale in zucca non può non notare. Le coop hanno sfruttato una legislazione a loro favorevole per incistarsi nel tessuto sociale di queste prospere comunità, senza dare nulla in cambio. Per fortuna, in Italia abbiamo ancora personaggi vecchierelli ma incazzosi come il signore qui sopra. Uno dei Grandi (non esagero) che ha traghettato l'Italia dal sottosviluppo del dopoguerra al miracolo economico. La sua testimonianza, in un paese normale, dovrebbe diventare un libro scolastico. Non solo perchè è una denuncia limpida e veritiera del sistema emiliano. Ma perchè è un inno all'iniziativa individuale, alle capacità del singolo. Ossigeno puro, in quest'Italia di pecoroni.



Di seguito il post di Harry, di cui mi sono appropriato in maniera indebita... ;-)
Il libro Falce e carrello, scritto dal fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti, è molto più di un j’accuse: è un’inchiesta sul sistema cooperativistico italiano. Prefatto da Geminello Alvi e corredato da documenti inediti e politicamente rilevanti, non si limita a denunciare la sproporzione fra ragione sociale delle cooperative e loro ruolo nel mercato: già è noto che il sistema delle cooperative, essendo finalizzato a scopi mutualistici e sociali, gode di vantaggi fiscali notevoli (dalle agevolazioni sull’Ires al prestito sociale), elementi che di per sé inquinano la competizione nel momento in cui le Coop, partendo da posizioni di privilegio, operano nel mercato con aziende che pagano tasse più elevate e che per investire sono obbligate a ricorrere a prestiti bancari.Caprotti va ben oltre e documenta, con dovizia di particolari, quel pericoloso intreccio economico, finanziario e politico, quelle consorterie – è proprio il caso di dirlo – di cui le cooperative rosse sono parte fondante: partito, amministrazioni locali, Parlamento, cooperative, sindacato. Un gioco in cui gli stessi uomini occupano posti interscambiabili, a dimostrazione delle relazioni tra i diversi ingranaggi dello stesso meccanismo.L’idea del libro nasce da un periodo di estreme pressioni cui Esselunga viene sottoposta, con interventi di esponenti politici dell’ex Pci e delle Coop che, di fronte a voci poi smentite sulla possibile vendita del gruppo, paventano il “rischio” della cessione a stranieri e invocano la cessione a Coop, fino all’intervista a Porta a Porta di Romano Prodi il quale, in campagna elettorale, nel 2006, propone addirittura un intervento del governo venturo per sollecitare l’acquisto di Esselunga da parte di Coop. E il braccio sindacale del sistema coop-Pci, la Cgil, indice scioperi in Toscana per bloccare il funzionamento di Esselunga: scioperi che, non avendo adesioni tra i dipendenti, si riducono a tentativi dei sindacalisti di impedire l’accesso dei clienti nei supermercati (con intervento dei carabinieri).Non si tratta di un libro che si piange addosso: lo testimonia il ricco capitolo introduttivo, in cui si riassume l’epopea famigliare e imprenditoriale di una persona che ha avuto diversi successi e che, a ottant’anni d’età, può permettersi di togliere qualche sassolino dalla scarpa, con un pamphlet documentato e a tratti ironico. E’ piuttosto la testimonianza di una lotta intergenerazionale contro gli interessi corporativi di qualunque genere: le difficoltà del padre, imprenditore tessile, alle prese con le corporazioni fasciste che lo ostacolavano perché non frequentava il partito. Gli ostacoli del figlio, alle prese con lo stesso sistema fascista ereditato e affinato dal Pci. Il gruppo Coop ha quote di mercato di tutto rilievo. Solo che esse si concentrano nelle “regioni rosse” (Emilia-Romagna, Toscana, Liguria), dove è costantemente sopra al 40%, con picchi del 78% nella provincia di Siena. Un’anomalia che non si spiega con ragioni di mercato: ricerche indipendenti di Panel International attestano prezzi più vantaggiosi presso altri gruppi di grande distribuzione, e il confronto è sfavorevole al gruppo Coop anche dal punto di vista dell’efficienza distributiva e della qualità dei prodotti (il biologico, per esempio, ha in Esselunga un’incidenza più che doppia rispetto a Coop). Non solo: laddove non c’è concorrenza, cioè in quelle aree in cui Coop è riuscita a impedire l’insediamento di concorrenti, i prezzi medi sono incomparabilmente superiori (fino al 20% in più in media) rispetto alle aree in cui invece c’è concorrenza con altri gruppi. La spiegazione la dà non Caprotti, ma lo stesso presidente di Coop Liguria e consigliere di Unipol, Bruno Cordazzo, che, commentando una sentenza favorevole al gruppo Carrefour (ostacolato dal Comune di Genova nella realizzazione di un supermercato), afferma stizzito che «quando si va in casa di altri [Genova, casa di Coop Liguria, ndh] si chiede il permesso» e Coop Liguria è presente nel territorio per la sua «capacità di rapportarsi con le istituzioni» (Secolo XIX, 07.06.05). Rivendica cioè il legame tra partito, amministrazioni locali e cooperative, a danno della concorrenza. Quanto scritto dal fondatore di Esselunga non fa che confermare questa visione sovietica del mercato, così radicata in Emilia-Romagna e Toscana: terreni agricoli che in una notte diventano edificabili per la costruzione di centri commerciali Coop, terreni commerciali svenduti a Coop e, viceversa, prestiti sociali utilizzati non per fini mutualistici ma per comprare a cifre fuori mercato aree da togliere alla concorrenza, piani regolatori modificati dopo l’intervento di Legacoop. Valga su tutti l’esempio emblematico di Bologna. Dove Esselunga, dopo lunghe procedure, acquista nel 1999 un’area per l’edificazione di un supermercato. Come avviene in ogni parte d’Italia, durante i lavori affiorano alcuni resti archeologici su cui il ministro Giovanna Melandri (guarda caso del Pci-Ds, e oggi neo-giovane) pone il vincolo. Viene respinta l’ipotesi di Esselunga di spostare i resti di qualche metro (pratica attuata comunemente per resti di piccole dimensioni), e si chiedono modifiche al progetto che fanno lievitare i costi (la più curiosa è un supermercato sopraelevato con pavimenti di cristallo per consentire a chi compra la verdura di ammirare i resti archeologici). Dopo lunghe trattative, nel febbraio 2000 Esselunga rinuncia alla costruzione del supermercato. Dopo nemmeno due mesi, in aprile, Coop Adriatica compra il terreno e in maggio la Soprintendenza autorizza quello spostamento di resti archeologici che ha vietato tre mesi prima. Coop può così costruire un supermercato, mentre i resti archeologici giacciono in un terreno incolto ricoperti di plastica nera.In un passaggio, Caprotti commenta la cessione, l’ante-vigilia di Natale, a Coop Estense di un terreno di proprietà del Comune di Modena per un prezzo di gran lunga inferiore al valore commerciale, con un «affari loro. Se i cittadini di Modena sono contenti…». In effetti questo è il punto più controverso della questione. Il sistema tentacolare che coinvolge partito, amministrazioni, coop, sindacato e banche rosse non danneggia solo il mercato e i concorrenti, ma gli stessi cittadini. I quali non protestano in massa di fronte alla svendita di un “loro” terreno a un centro commerciale, non pretendono l’apertura alla concorrenza della grande distribuzione e così via. E allora c’è da chiedersi il perché. O questi cittadini sono antropologicamente diversi dagli altri italiani (non nel senso superiore che intende di solito l’élite di sinistra, ma nel senso che sono più scemi), oppure – e qui ovviamente si propende per questa ipotesi – il sistema fascista ereditato dal Pci-Ds ha davvero imbrigliato gran parte della vita economica, culturale e civile di quelle regioni. Ha, in definitiva, imbrigliato la democrazia.
Bernardo Caprotti, Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani, prefazione di Geminello Alvi, Marsilio, Venezia 2007, pp. 188.

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venerdì, ottobre 05, 2007

La Birmania raccontata da chi la conosce

Molte, troppe persone, che fino ad un mese fa quasi ignoravano l'esistenza della Birmania, ora ne parlano come se fossero grandi esperti. Per fortuna nella blogsfera c'è il Mango di Treviso, che di mestiere fa l'imprenditore nel Sud-Est asiatico, e la Birmania la conosce bene.Sono molto contento quindi di postare questo suo pezzo, forse il più documentato e originale disponibile in lingua italiana. Godetevelo.
I media italiani hanno scoperto la Birmania, questo bellissimo paese con immense risorse naturali (è il primo produttore di teak al mondo e ha importanti giacimenti strategici di gas e petrolio) grazie agli avvenimenti odierni che suscitano l’unanime e vibrata protesta da parte dell’opinione pubblica internazionale.D’accordo, quello che sta succedendo è deplorevole sotto tutti i punti di vista, ma bisogna evitare di dare un giudizio frettoloso di condanna a senso unico contro la giunta militare al potere, come sembra fare la maggior parte dei commentatori, senza conoscere la realtà della situazione politica ed economica del Paese fino ad oggi ai margini della comunità internazionale.Effettivamente si tratta di uno dei paesi più poveri ed isolati del mondo, governato, si badi bene, non da ieri l’altro, ma fin dal 1962, cioè da più di 45 anni, da una giunta militare corrotta e strapotente che ha imposto un ferreo regime di controllo su tutte le attività economiche del paese e soffocato sul nascere tutti i tentativi di democratizzazione della vita politica (ricordiamo il rifiuto di accettare la vittoria della Aung San Suu Kyi, lega nazionale per la democrazia, alle elezioni del 1990, che fu all’origine delle sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti). Si tratta di un sistema di governo, fin dall’inizio, è bene sottolinearlo, applaudita all’epoca dai progressisti nostrani, come una originale “via birmana al socialismo” e che ha portato il paese alla situazione odierna di inflazione sistematica e di una scandalosa povertà generalizzata senza contare la costante violazione dei diritti umani fondamentali.Non sorprende quindi che la Birmania sia considerato come un paese pariah dell’occidente, oggetto meritevole di sanzioni economiche fin dal 2003. Però, l’atteggiamento degli Stati Uniti e dei severi, a parole, paesi europei, ha avuto come conseguenza di gettare questo paese nelle braccia soprattutto della Cina e anche dei Paesi asiatici limitrofi, con regimi, nella migliore delle ipotesi, a democrazia traballante. Tanto per farsi una idea, ecco alcuni esempi edificanti ed emblematici della situazione attuale dei rapporti politici, commerciali e finanziari della Birmania con questi paesi.La Cina assicura alla Birmania una costante assistenza militare, la frontiera tra i due paesi è un riconosciuto colabrodo cosi che il nord commerciale del paese è praticamente controllato dai cinesi, basta vedere l’imponente consolato della Cina nella città di Mandalay, in contrasto con i fatiscenti palazzi del governo birmano.Non bisogna dimenticare che il sottosuolo della Birmania racchiude il 10% delle risorse mondiali in gas naturale e sta nel bel mezzo di una regione in pieno sviluppo e affamata di fonti energetiche. Le compagnie cinesi si sono fatte assegnare dal governo quasi tutte le concessioni per lo sfruttamento di gas e petrolio e lo stesso governo cinese ha recentemente approvato la costruzione del pipeline che porterà il petrolio medio orientale dal porto birmano di Sittwe fino alla provincia dello Yunnan, evitando cosi la rotta attuale dello stretto di Malacca.La China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) è capofila di un consorzio che ha firmato un contratto di esclusività per lo sfruttamento dei giacimenti della regione di Rakhine in associazione con la Myanma Oil and Gas Enterprise. Da notare che il pipeline che adesso trasporta il gas naturale dalla Birmania alla Tailandia fu costruito, vedi caso! dalla TOTAL francese e dalla UNOCAL americana. La Saipem del Gruppo ENI installò il pipeline che porta il gas dei giacimenti di Yadana fino alla costa. In barba a sanzioni e supposti boicottaggi internazionali, la Tailandia attualmente compra dalla Birmania più di un miliardo di dollari all’anno di gas naturale. Tra l’altro, i ricercatori dello stesso paese hanno annunciato di aver scoperto, confermandone l’esclusività dello sfruttamento, un significativo giacimento di gas e petrolio nel golfo del Martaban. Non son da meno gli altri paesi asiatici e i russi. Infatti la società russa Zarubezhneft Oil Company ha ottenuto l’esclusiva per la ricerca e sfruttamento delle riserve birmane offshore, l’India ha firmato recentemente un contratto per la costruzione di un pipeline per importare il gas birmano via il Bangladesh, e infine Singapore ha appena firmato accordi per importare sabbia, cemento, graniti e altri materiali per l’edilizia.Da un punto di vista politico, la maggiore preoccupazione oggi dei generali birmani è il mantenimento dello stato unitario, rafforzando l’autorità sulle minoranze etniche che sono fonte di permanenti tensioni separatiste ma che allo stesso tempo motivano la solidarietà all’interno della giunta al comando per il più stretto controllo degli affari nazionali. Del resto le forze armate birmane sono tra le più efficienti del mondo in particolare forti di una esperienza di guerriglia nella giungla e con equipaggiamenti moderni acquistati sia con i proventi delle vendite di gas, sia utilizzando gli aiuti, non certo disinteressati, ricevuti dalla Cina e da Singapore.Tutti concordano nell’affermare che la giunta militare non lascerà mai il potere ai civili ciò che del resto è lungi dalla mentalità asiatica e confuciana.Quindi la via da seguire nel futuro, non è quella delle sanzioni che lasciano il tempo che trovano dati i formidabili interessi cristalizzatisi attorno alle risorse del paese e l’ipocrisia delle istanze internazionali, ma cercare di modificare dall’interno il regime attuale. Ne è esempio quello che è successo nel vicino Vietnam che da regime messo al bando dalle democrazie occidentali, è diventato in soli dieci anni il coccolo del capitalismo internazionale. Non c’era evidentemente bisogno di rovesciare il regime di Hanoi per effettuare le necessarie riforme economiche che invece si sono realizzate dall’interno con modificazioni strutturali equilibrate benchè autoritarie.Ed è questo l’unico metodo possibile che deve essere adottato anche per la Birmania, facilitando con tutti i mezzi una evoluzione del paese nel senso liberistico ed evitando, così, tutti i traumi di conflitti e spinte sociali estremistiche. Data anche la mentalità particolare, poco conosciuta e sottovalutata da noi occidentali, che riserva per questi popoli energie insospettabili e storicamente provate, tale orientamento non può essere sostituito dagli interventi palliativi della comunità internazionale ipocritamente effettuati solo per darsi buona coscienza.Alter non datur.
Sources: Forbes, Financial Time, Asian Business, CIA.
Nota: Ringrazio il Professore LAO per i suoi preziosi commenti

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martedì, ottobre 02, 2007

Chiudere la porta quando i rom sono ormai entrati


Ferrero: «Cresce troppo l'afflusso di Rom in Italia, va limitato». L'avete letta anche voi questa sensazionale dichiarazione, vero? Bene, guardiamo la situazione reale.Partiamo da un dato di fatto, ovvero che i rom, per la maggior parte, vengono dalla Romania.Pochi rumeni sono rom, ma molti rom che sbarcano in Italia hanno il passaporto rumeno.E come procede l'immigrazione rumena verso il nostro paese? Prendo i dati forniti dal comune di Bologna. Rumeni residenti in città, al 31 dicembre 2006:1751.Poi abbiamo avuto l'entrata della Romania nell'Unione Europea, e la situazione è cambiata: Rumeni residenti in città, al 30 giugno 2007: 2947. Un aumento, in termini percentuali del 68,3%!In soli sei mesi! Questo non è un flusso migratorio, questo è un esodo, se consideriamo un altro dato di fatto: l'Emilia Romagna non è la regione preferita dai rumeni. Molto meno, comunque, di Lazio,Piemonte,Lombardia e Veneto. E solitamente il fenomeno migratorio si autoalimenta, ovvero chi fa parte dell'etnia x si stabilisce maggiormente dove sa di poter trovare un alto numero di membri dell'etnia x.Di conseguenza immagino che nelle grandi città del Nord e a Roma l'incremento sia stato ancora più forte. Calcolando che i rumeni non si stabiliscono solo in Italia, ma in tutti i paesi neolatini (Francia,Spagna,Belgio) sarei portato a dire: troppo tardi, mister Ferrero. Tutti i rumeni (e,soprattutto, tutti i rom) che volevano partire l'hanno già fatto. E mò ce li teniamo in casa.
(Grazie a El ciuco rubro per la vignetta)

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